Eduardo Scarpetta nacque il 13 marzo 1853, come risulta «inequivocabilmente dai documenti di famiglia» (Mario Mangini, Eduardo Scarpetta e il suo tempo, Napoli, Montanino, 1961, p. 14) anche se in vari saggi dedicati alla sua vita, compare erroneamente il 1854. L'errore è stato causato, in realtà, dallo Scarpetta stesso che nelle due ultime edizioni dell'autobiografia (Don Felice, memorie, Napoli, Carluccio, 1883; Dal San Carlino al Fiorentini, Napoli, Il Pungolo Parlamentare, 1899; Cinquant'anni di palcoscenico, Napoli, Gennarelli, 1922, qui citato nella ristampa, Napoli, Pagano, 2002) ha indicato il 1854 come anno di nascita e il Croce, che ne fu prefatore, non mancò di segnalare scherzosamente questa inesattezza. Era «figlio di buona famiglia» come dicevano i comici ottocenteschi parlando di chi non fosse nato da attori (Salvatore di Giacomo, Cronaca del Teatro San Carlino, Trani, Vecchi, 1895, p. 535): il padre, Domenico Scarpetta, era ufficiale agli affari ecclesiastici del ministero borbonico e tra i suoi compiti rientrava la vigilanza sui teatri, dove, di tanto in tanto, portava con sé la famiglia. Ecco perché Eduardo fu uno spettatore precoce: varcò presto la soglia del Teatro dei Fiorentini, assistendo con poca attenzione agli spettacoli di prosa delle maggiori compagnie italiane di passaggio per Napoli, e quella del Teatro San Carlino dove invece si appassionò agli spettacoli comici, in dialetto, dinamizzati dal genio di Antonio Petito, interprete moderno della maschera di Pulcinella e di Pascariello.
Fu precoce anche nell'ingresso professionale a teatro, che avvenne a quindici anni, in tristi circostanze e dietro pressanti necessità economiche: il padre Domenico si spense nel 1868 dopo una lunga malattia che aveva prosciugato i risparmi di famiglia. Eduardo si propose come attore alla compagnia del Teatro Nuovo - dove recitava Antonio Petito - contando sulle buone relazioni del padre, ma senza successo. Ripiegò allora sulla nuova compagnia del San Carlino, capeggiata da Tommaso Zampa, dove recitava Antonio Natale, un altro attore amico, con l'impresa Mormone. E qui ottenne la sua prima scrittura il 22 ottobre 1868, il cui testo è parzialmente pubblicato nell'autobiografia. Stando a quanto vi si legge il giovane era ingaggiato «in qualità di generico di secondo filo, non escluse le ultime parti e quelle di poca o niuna entità». Doveva, insomma, assolvere alle più disparate e marginali esigenze in qualunque tipo di spettacolo, compreso «ballare, tingermi il volto, essere sospeso in aria, se qualche produzione il richiedesse, ed in fine fare tutto ciò che mi verrà imposto, come anche cantare nei cori, e a solo, nei vaudevilles» (Eduardo Scarpetta, Cinquant'anni, cit., p. 62). Sostiene di aver debuttato nella nuova rivista di Antonio di Lerma di Castelmezzano Cuntiente e guaie, ma il suo nome compare già in piccoli ruoli nelle locandine teatrali di altri spettacoli precedenti (Antonio Pizzo, Scarpetta e Sciosciammocca: nascita di un buffo, Roma, Bulzoni, 2009, p. 24). Quello al San Carlino fu, comunque, un ingaggio di breve durata perché l'impresa sciolse la compagnia nel marzo del 1869.
Trovò, tuttavia, rapidamente un nuovo impiego grazie ai buoni uffici di due attori, Cesare Spelta e Giovannina Altieri, nella formazione del Teatro Partenope, diretta dal capocomico Gennaro Pastena per l'impresa di Gennaro Falanga. Costui controllava un vero e proprio sistema teatrale, basato su tre distinte sale: Fenice, Partenope e Sebeto. Nel complesso l'offerta era molto variata, contemplando sia il dramma storico che la commedia, la farsa, la rivista e il ballo (l'impresa aveva costituito un vero e proprio corpo di ballo con primi ballerini, danzatrici, mimi, un maestro concertatore di danza, un maestro di musica e musicisti). La strategia impresariale era quella di far replicare i maggiori successi di un teatro anche sugli altri due, onde ricavare il maggior guadagno possibile. Scarpetta si misurò, pertanto, con i più disparati generi dello spettacolo contemporaneo sviluppando, di conseguenza, tutte le abilità richieste. Gli esiti dell'affannoso tirocinio non furono né gratificanti né soddisfacenti; anzi Scarpetta riporta, con spirito faceto, una nutrita scelta dei suoi errori scenici, specialmente nel repertorio drammatico dove eccelleva l'autorevole primo attore Antonio Gagliardi. Nel Benvenuto Cellini, ad esempio, un dramma storico in cui Gagliardi impersonava il grande artista e Scarpetta uno dei suoi apprendisti, alle battute del Gagliardi «Il getto...Il getto!...Presto figlioli!» il giovane avrebbe dovuto passare le forme di cartapesta dipinta color del bronzo fingendo di sostenere un grande peso, ma dimenticandosi di simulare la fatica ridicolizzò la suspense del momento drammatico (Eduardo Scarpetta, Cinquant'anni, cit., p. 83). Fu allora spostato nel repertorio dei vaudevilles, dove ottenne migliori risultati percependo una paga di appena quaranta lire mensili. Ecco perché accettò la proposta di Carlo Pecoraro, agente-suggeritore della compagnia di Michele Bozzo, grande stella del repertorio drammatico in lingua, di essere scritturato come giovane Generico per le ultime parti con una paga di due lire e cinquanta al giorno. Era stato assunto in vista di una serie di recite da tenersi al teatro municipale di Catanzaro: fu una delle esperienze più aspre e umilianti, durata dall'ottobre 1869 al marzo 1870.
Al rientro a Napoli fu riaccolto nella formazione del Teatro Partenope dove tornò ad occupare i soliti ruoli marginali con la vecchia paga. A sbloccare Scarpetta dalla routine contrattuale fu la sua attitudine alla scrittura, dote rara nel mondo teatrale dell'epoca: Scarpetta compose alcune farse, tra cui una dal titolo Pulcinella creduto moglie di un finto marito di cui è attestata la prima rappresentazione al Partenope il 14 settembre del 1870. La farsa attirò l'attenzione dell'impresa sulle sue potenzialità di comico e dopo vari aggiustamenti entrò in repertorio.
L'esordio d'autore agevolò quello dell'attore. Stando a quanto racconta Scarpetta, fu il Pulcinella Raffaele Marino a proporgli il ruolo di Felicello, un Mamo di una vecchia farsa di Enrico Parisi, intitolata Pulcinella spaventato da un cadavere di legno che andò in scena il 7 giugno 1871 e che l'autobiografia tramanda col titolo con cui diventò più tardi famosa per merito di Scarpetta, ossia Felicello Sciosciammocca mariuolo de 'na pizza (Ivi, p. 88). La farsa ebbe successo, fu replicata più volte al Partenope attirando l'attenzione di Giuseppe Maria Luzi, ora impresario del Teatro San Carlino, sempre alla ricerca di nuovi elementi da integrare in compagnia per sconfiggere la concorrenza.
Eduardo Scarpetta venne scritturato al San Carlino per tre anni dal 31 marzo 1872, con la paga di cinquanta lire mensili (Antonio Pizzo, Scarpetta e Sciosciammocca: nascita di un buffo, cit., p. 40. Il contratto è pubblicato a pp. 195-199) e cominciò a esibirsi con la stessa pulcinellata che lo aveva reso famoso al Partenope. Per mettere alla prova il nuovo acquisto, Antonio Petito rielaborò sulle misure di Scarpetta una vecchia farsa di repertorio, intitolandola: Pulcinella solachianello arrozzuto (12 maggio 1872). L'esito fu più che soddisfacente tanto da essere ripresa più volte negli anni successivi con titoli ogni volta ricalibrati sul successo crescente del nuovo carattere scarpettiano: nel 1875 Pulcinella solachianello arrozzuto e ncojetato da D. Felice Sciosciammocca guaglione de n'anno e nel 1876, dopo la morte di Petito, Don Felice Sciosciammocca creduto guaglione de n'anno. Con quest'ultimo titolo Scarpetta ricorda la farsa nell'autobiografia. Per valorizzare appieno l'apporto del nuovo "buffo", Petito scrisse ex-novo: Inferno, Purgatorio e Paradiso di Don Felice Sciosciammocca con Pulcinella negoziante di panni, rappresentata il 20 luglio 1872.
Fu così che a diciannove anni Scarpetta conquistò un ruolo rilevante all'interno della compagnia del San Carlino, ponendosi alla pari con i colleghi più anziani. Nonostante i malumori, le fughe a Castellammare, il risentimento per le offese subite dai colleghi invidiosi, Scarpetta s'impadronì rapidamente degli stilemi e delle tecniche della recitazione sancarliniana perfezionando e arricchendo il suo carattere di cui la stampa elogiò la spontaneità e la vivacità. Frattanto Scarpetta si consolidò come autore negli ambiti della scrittura comica tradizionale, tra improvvisazione e copione scritto per esteso, concertato collettivamente, sbozzando farse, commedie, opere fantastiche, parodie e commedie d'attualità, sui paradigmi esemplari del repertorio petitiano. Nel marzo 1874 Scarpetta ottenne una sorta di riconoscimento ufficiale da parte dell'impresa che gli concesse il beneficio della serata d'onore. Egli ne approfittò per presentare una sua nuova commedia dal titolo Quinnece solde so cchiù assaje de seimila lire, la cui intelaiatura comica risentiva della struttura tradizionale, ma ritagliava per sé momenti di vivace comicità interpretando il tipo del giovane innamorato che combina guai sottraendo per gelosia un portafoglio pieno di cartamoneta (credendolo pieno di compromettenti lettere d'amore) e poi esibendosi nel ruolo del finto pazzo.
Nello stesso anno Petito presentò un'altra sua celebre parodia: La figlia di Madama Carnacotta (16 maggio, 1874) ispirata a La Figlia di madame Angot famosa operetta di Lecoq in scena contemporaneamente al Teatro Nuovo in lingua italiana. Si trattò di un nuovo tipo di parodia che sollecitò acutamente in Scarpetta l'interesse per i modelli francesi. Quest'ultimo compose infatti, sempre nel 1874, È buscia o verità (30 agosto 1874) tratta da un'opera di Eugène Scribe Le menteur veridique (Ivi, p. 60). Nonostante il 1875 e il 1876 fossero annate molto prolifiche e fortunate nella produzione comica di Petito, Scarpetta riuscì di tanto in tanto a far rappresentare anche qualcuna delle sue commedie o farse quali ad esempio: Sciosciammocca vincitore di una tombola di duemila lire e Una commedia in tre atti scritta da D. Felice Sciosciammocca ovvero Pulcinella poeta disperato. Tant'è che quando Petito fu costretto ad assentarsi dalle scene per malattia, nel febbraio del 1876, Scarpetta era già in grado di sostituirlo, presentando commedie e farse basate sul proprio personaggio.
Il ritorno di Petito alle scene fu breve: il 24 marzo 1876 (serata d'onore di Pasquale De Angelis il quale aveva scelto una commedia di Giacomo Marulli, La statua vivente, altrimenti nota come La Dama bianca) il grande comico morì a sipario chiuso, giusto alla fine del terzo atto. Con la morte di Petito il San Carlino entrò in una crisi profonda, nonostante tutti gli sforzi organizzativi e finanziari di Giuseppe Maria Luzi, destinato a sua volta a morire appena un anno dopo (1877) lasciando alla moglie l'eredità di un'impresa indebitata e bisognosa di nuove forze. Fu in questa fase delicata che Scarpetta si confermò come il successore di Petito, ovviamente non della maschera (per la quale Luzi aveva subito scritturato l'attore Giuseppe De Martino), ma del compito di autore di compagnia e di interprete trainante dell'ensemble con il suo esuberante tipo comico di Don Felice Sciosciammocca la cui notorietà si era ormai estesamente diffusa in città. In qualità di autore Scarpetta produsse una notevole quantità di commedie di attualità, parodie, commedie fantastiche sul solco della tradizione petitiana dando prova di saper dominare la variegata tastiera degli stilemi sancarliniani. Nelle memorie, tacendo del proprio contributo, condannò il repertorio post-petitiano del San Carlino, ormai più caratterizzato dalle operette e dalle commedie fantastiche che non dalle commedie popolari.
Nell'agosto del 1877, per sopraggiunti contrasti con la nuova impresa, lasciò il San Carlino e iniziò a «girovagare» presso diverse compagnie tra Roma e Napoli: fu dapprima con Raffaele Vitale al Teatro Metastasio di Roma tra il settembre 1877 e il marzo 1878. Tornò, per pochi mesi al San Carlino, chiamato dalla vedova Luzi, recitando vari suoi testi fra cui Don Felice Sciosciammocca maestro di calligrafia (anni dopo riproposto col titolo 'No pezzente resagliuto) caratterizzato da toni realistici e drammatici e un'altra opera fantastica, Lu testamiento de Parasacco, ma senza salvare l'impresaria che dichiarò fallimento nell'agosto 1878 con il conseguente scioglimento della compagnia. Mentre il San Carlino passava in gestione a Davide Petito, Scarpetta si fece scritturare da Giovanni Gargano e Gennaro Visconti al teatro Quirino di Roma dove iniziò a recitare un repertorio di operette. Senza rispettare i patti contrattuali accettò quasi subito un'altra scrittura, più vantaggiosa, al Metastasio di Roma. Citato in tribunale dal Gargani e dal Visconti venne condannato a una multa di 1600 lire, ridotte della metà a seguito di patteggiamenti.
Il ritorno a Napoli, alla fine della Quaresima del 1879, non fu da trionfatore, ma, auspice il Marchese Sant'Elia, firmò una nuova scrittura con l'impresa di Luigi Berlingieri e Francesco De Gregorio per il Teatro delle Varietà. Qui ricoprì per la prima volta il ruolo di direttore di compagnia come esplicitava il titolo della commedia con cui si aprì la serie delle rappresentazioni il 1 ottobre 1879: 'Na Compagnia comica diretta dal Cav. Felice Sciosciammocca. Per questa compagnia allestì speditamente un repertorio caratterizzato dalla presenza costante del suo personaggio e basato esclusivamente sulla propria opera di autore attingendo in parte ai suoi lavori sancarliniani, ma in gran parte componendo novità, come ad esempio le commedie: Il pittore in soffitta, o Pulcinella e Sciosciammocca tormentati da venti centesimi; o operette fantastiche (La collana d'oro; La treccia dell'imperatore).
In primavera la compagnia partì in tournée per farsi conoscere a Milano, Torino e Livorno. Delle tre tappe la più significativa per Scarpetta fu quella nel capoluogo lombardo dove egli presentò al Teatro Milanese, diretto da Edoardo Ferravilla, un suo nuovo testo scritto appositamente, Nu milanese a Napole recitandolo con il capocomico, con gran divertimento da parte del pubblico e degli interpreti stessi (Eduardo Scarpetta, Cinquant'anni, cit., p. 155). L'incontro con Ferravilla risultò molto importante alla luce della svolta impressa di lì a poco da Scarpetta nel suo repertorio comico. L'autore-attore napoletano prese, infatti, in seria considerazione le potenzialità delle riduzioni in dialetto della drammaturgia straniera sulla base del successo conseguito dal Ferravilla nella sua città. La tournée proseguì, poi, verso Torino e infine Livorno dove si concluse in giugno, con lo scioglimento della compagnia a causa dei debiti accumulati dall'impresa.
Tornato a Napoli, nell'estate del 1880, trovò i finanziatori per ristrutturare il Teatro San Carlino dove decise di stabilirsi ponendosi a capo di una scelta compagnia di attori in grado di dare vita al suo repertorio innovativo. «Mentre il teatro italiano progrediva di giorno in giorno, il teatro dialettale restava stazionario» sentenziò Scarpetta nelle sue memorie (Ivi, p. 158) e condannò le consuetudini dello spettacolo partenopeo: lazzi pulcinelleschi stantii, sciatteria nella recitazione, scenografie logore e trasandate quanto i costumi. In realtà la tenuta della tradizione poteva ancora contare su complessi capeggiati da attori rinomati, a cominciare da Davide Petito, che aveva lasciato libero il San Carlino nella primavera precedente per andarsene a sua volta in tournée e che poi, al ritorno, si sarebbe installato al Teatro Partenope, da dove avrebbe successivamente tenuto testa alle novità di Sciosciammocca erigendosi a campione della maschera di Pulcinella.
Deciso a rinnovare profondamente il teatro comico dialettale, ma conscio delle resistenze che avrebbe incontrato, Scarpetta si sforzò di adottare una strategia graduale per farsi accettare dal pubblico. Ecco perché volle investire proprio nel vecchio edificio del San Carlino, nonostante già si vociferasse che nel 1884 sarebbe stato abbattuto a causa delle previste ristrutturazioni del centro storico napoletano, denominate "Risanamento". Scarpetta ristrutturò il San Carlino innalzandolo al livello delle maggiori sale cittadine quanto a bellezza e comodità, illuminazione e macchinistica. L'edificio del San Carlino, infatti, era in sé un'insostituibile garanzia per legittimare il progetto riformatore di Scarpetta. Quanto a ciò le novità erano, in effetti, consistenti: nel repertorio scarpettiano fecero il loro preponderante ingresso le riduzioni in dialetto napoletano di vaudeville, operette e commedie francesi ad opera dello stesso capocomico. Alle riduzioni si affiancarono commedie originali (o del tutto nuove o recuperate dalla precedente fase sancarliniana di Scarpetta). Si calcola che su un totale di circa 142 opere scarpettiane, 62 siano riduzioni francesi (Ivana Guidi, La Napoli francese di Scarpetta, in «Drammaturgia», n.s. Traduzioni, tradizioni, tradimenti, n. 3, 1996, p.102). Ciò comportò la netta prevalenza dei personaggi borghesi su quelli popolari, in modo che la nuova classe in ascesa si rispecchiasse in espressioni linguistiche e comportamenti riconoscibili benché comicamente deformati. In tale quadro, la maschera tradizionale di Pulcinella risultava fuori contesto: fu gradualmente esiliata dalla commedia e confinata nella farsa finale fino a scomparire del tutto dal repertorio; all'attore che l'aveva impersonata, Cesare Teodoro, fu assegnato il ruolo di caratterista, per lo più nei panni del servo. Analogamente le altre maschere e i buffi tradizionali (Tartaglia, il Guappo, Don Asdrubale, il buffo barilotto...) furono riconvertiti nei nuovi ruoli del teatro scarpettiano: caratteristi, brillanti, promiscui. Come si può notare, il nuovo repertorio aveva implicato la profonda revisione della composizione tradizionale delle compagnie, con trasformazioni significative nel mansionario di ciascun attore.
Tutto ciò avvenne in rapporto alla scelta del nuovo ensemble attenta alla combinazione delle vecchie glorie del passato, come Pasquale De Angelis – che tuttavia non sopravvisse al giorno dell'inaugurazione del San Carlino – o come Cesare Teodoro (l'ultimo Pulcinella del San Carlino), o Adelaide Schiano, Adelaide Agolini, il tartaglia Michele Berardinelli con i nuovi interpreti sperimentati da Scarpetta come colleghi in altre formazioni (come Amalia De Crescenzo, servetta, che portò con sé il marito, Raffaele) o reclutati dopo averli visti recitare sui palcoscenici napoletani, come Gennaro Pantalena, ammirato nella parte di guappo. In compagnia incluse anche la sorella più piccola, Gilda. Questa compagine avrebbe dovuto essere espertissima nell'arte scenica, ma nello stesso tempo «docile» (E. Scarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, cit., p. 160) nel recepire le indicazioni del nuovo direttore, puntuale alle prove, appropriata nei gesti e nella mimica.
L'inaugurazione del San Carlino ebbe luogo il 1 settembre 1880 con la stessa commedia con cui Scarpetta aveva inaugurato il Teatro delle Varietà l'anno precedente, quasi come in una cerimonia di saluto e riconoscimento alla città. Ma già il 7 settembre Scarpetta presentò la prima commedia riformata, intitolata Tetillo, in tre atti, riduzione di Bebé di Hennequin e de Najac. Fu bene accolto, ma il pieno consenso giunse dopo due mesi, con Mettiteve a fa l'ammore co mme, un'altra riduzione, questa volta dal testo italiano di Giovanni Salvestri, il commediografo livornese conosciuto durante il soggiorno milanese. Dopo una serie originale di farse e parodie di attualità alla vecchia maniera ('O Pescecane) un'altra riduzione: Duje marite 'mbrugliune, da Les dominos roses di Belacour e Hennequin, riscuotendo anche qui un buon esito. Ma il vero clamoroso trionfo fu colto nel nuovo anno, con un'altra riduzione: 'O scarfalietto da La Boule di Meilhac e Halévy, in prima il 15 gennaio 1881 e replicata per ben ottanta giornate consecutive.
Il successo dello Scarfalietto provocò la prima ondata di polemiche contro Scarpetta, cominciata sulle tavole del palcoscenico del Teatro Partenope, passata sulle pagine dei giornali e conclusa, ciclicamente, a teatro sul palcoscenico del San Carlino. Davide Petito recitò il 25 gennaio 1881 la commedia intitolata: Una mazziata morale fatta da Pulcinella a Don Felice Sciosciammocca ovvero L'Apoteosi della maschera nazionale, scritta per l'occasione da Domenico Jaccarino, autocandidatosi quale difensore delle glorie "nazionali", ossia napoletane. Invitato ad esprimersi, Michele Uda, celebre firma del «Pungolo», sottolineò l'innegabile rinascita del San Carlino grazie alla direzione di Scarpetta (nel frattempo diventato anche impresario) e al nuovo repertorio riformato. La «farsa-allegoria» pulcinellesca era stata acclamata dal pubblico del quartiere popolare di Foria, ma era «scipita e sconclusionata, infarcita di tirate comico-sentimentali» contro un attore che aveva il merito di aver creato un teatro che «Non è ancora il teatro napolitano ma una preparazione ad esso» (Ivi, p. 170). Federico Verdinois, dalle pagine del «Corriere del mattino» concordava sull'inconsistenza della farsa jaccariniana, «manifestazione sciaguratissima di arte codina» e sul fatto che la maschera di Pulcinella fosse ormai morta. Dissentiva, invece, sul fatto che le pièces di Scarpetta fossero «commedia popolare», giacché i personaggi del nuovo San Carlino non erano popolari, ma borghesi, erano attinti da modelli stranieri, mentre il teatro popolare doveva fondarsi su basi patrie, come succedeva nelle commedie di Angelo Moro Lin o anche nelle più belle e antiche commedie del San Carlino (Ivi, pp. 174-175). Nelle more del dibattito giornalistico Scarpetta organizzò, per tutta risposta, al San Carlino, una rappresentazione speciale con lo scopo di avvalorare il proprio repertorio mettendo in scena, uno dopo l'altro a confronto, Nu surdato 'mbriaco dinto a lu vascio de la sié Stella di Filippo Cammarano seguito da Duje marite 'mbrugliune, una sua riduzione da Les Dominos roses.
Il confronto sancì la decisa superiorità della sua riduzione e con tale trionfo la polemica si chiuse temporaneamente. Per Scarpetta l'episodio giornalistico era servito a sottolineare pubblicamente la validità del percorso intrapreso, tant'è che a partire da questo momento il numero delle riduzioni in programma cominciò a pareggiare (1881) e poi superare (1882) quello delle commedie o farse originali.
Rinfrancato dai successi e dai riconoscimenti ufficiali (nel 1883 gli fu persino attribuita l'onoreficenza del Cavalierato d'Italia per meriti d'artista e commediografo) Scarpetta cominciò ad ampliare il raggio delle proprie escursioni teatrali al fine di farsi conoscere con la propria compagnia, programmando corsi di recite presso le maggiori città italiane: nell'estate dell'84, ad esempio, va a Milano, al teatro Manzoni e a Roma al teatro Apollo; nell'85 è a Palermo, al teatro Bellini.
Ma, proprio all'inizio del 1886, il 16 gennaio, tre dei suoi migliori attori pubblicarono sul «Pungolo» la notizia di essersi dissociati dalla compagnia di Eduardo Scarpetta (la trascrizione degli articoli de «Il Pungolo» di argomento scarpettiano è pubblicata in: Tiziana Paladini, Eduardo in giacca e cravatta, Napoli, Luca Torre, pp. 95-168; p.139). Erano: Amalia De Crescenzo, Raffaele De Crescenzo e Gennaro Pantalena. Fu il primo importante segnale di un profondo dissenso tra Scarpetta e questi inquieti artisti, attratti dalla possibilità di sperimentare una drammaturgia di ambientazione popolare, ma pensosa e artisticamente impegnata, quanto impossibilitati a mobilitare attorno a sé le risorse necessarie alla loro impresa. Di qui il loro frequente tornare a Canossa, da Scarpetta, per poi dissociarsene di nuovo alla prima occasione. «Fisime di capo comico» (E. Scarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, cit., p. 221) le definì (riduttivamente) Scarpetta, con l'evidente intento di separare gli attori dal fronte unito degli autori-letterati del Teatro dialettale d'Arte decisamente antiscarpettiano. Ciò spiega la ragione per cui Scarpetta molto pazientò riguardo alle reiterate sortite dalla sua compagnia, poiché ogni separazione comportava notevoli ripercussioni all'interno dell'organico così attentamente calibrato sul repertorio.
All'inizio del 1886 rimpiazzò Pantalena e Raffaele De Crescenzo con Salvatore De Cesare e Luigi Pelisier. Ma ai tre fuggitivi si aggiunsero anche l'Agolini e le sorelle Magnetti, per cui d'estate Scarpetta rafforzò ancora la compagnia con altri due attori, Cesare De Chiara e Gennaro Miano, facendo sporadiche rappresentazioni di rodaggio al Teatro Rossini di Napoli, al San Ferdinando e al Nuovo. L'obiettivo, infatti era ambizioso: una tournée autunnale di tre mesi a Firenze (ottobre, Arena Nazionale), Bologna (novembre, Teatro Brunetti) e di nuovo Firenze (dicembre, stesso teatro) per imporsi all'attenzione nazionale con il suo teatro in dialetto napoletano. La tournée andò molto bene: a Firenze fu recensito in modo lusinghiero da Jarro (Giulio Piccini) e fu accolto con molta benevolenza da Tommaso Salvini. Gli spettatori bolognesi, che a detta dell'autore-attore napoletano, «non comprendevano un'acca» (Ivi, p. 212), rideva lo stesso a crepapelle per le inusitate capacità mimiche e gestuali degli attori. Tornato a Napoli, Scarpetta riprese le recite al Teatro Fondo con repliche e novità, fra cui la rivista Sempre le stesso!.
Nel corso del 1887 portò a termine, quello che venne subito riconosciuto come il suo capolavoro drammaturgico, Miseria e nobiltà che debuttò il 7 gennaio 1888, al Mercadante, avvalendosi del contributo di Gennaro Pantalena e Raffaele De Crescenzo, rientrati in formazione durante l'estate e del figlio Vincenzo, di poco più di 10 anni. Quell'anno fu dedicato principalmente alla diffusione di questo testo con tournées primaverili e estive, come quella in giugno a Palermo, al Teatro Rossini, dove si consumò la seconda frattura con Pantalena e De Crescenzo i quali, questa volta, riuscirono a portare seco tutti gli attori di Scarpetta. Nelle viste di Pantalena c'era, infatti, la rappresentazione di Malavita di Salvatore Di Giacomo al Teatro Nuovo, proprio in quell'anno, un testo e una firma prestigiosi per aprire l'alternativa artistica del teatro in dialetto a Napoli.
Il furto della compagnia fu un colpo terribile per Scarpetta. Nell'autobiografia racconta di essersi trasferito a Milano per un breve corso di recite presso il teatro dell'amico Ferravilla e di essersi fermato in quella città per tutto l'autunno, occupandosi di due traduzioni di pièces francesi ricevute da Napoli di cui una aveva subito attirato la sua attenzione: Mam.zelle Nitouche. In realtà i giornali annunciarono l'8 settembre una sua rappresentazione alla Fenice e altre due recite straordinarie al Fiorentini di Miseria e nobiltà. In agosto, evidentemente, aveva contattato già vari attori per ricostituire una nuova compagnia di cui in settembre metteva a verifica la tenuta per debuttare ufficialmente, sempre al Mercadante, il 25 dicembre 1888 con Miseria e nobiltà. Fecero parte di questa seconda compagnia scarpettiana: Alfonso e Maria Grazia del Giudice, Giulia e Giovanni Schettino, Giuseppe Gheradi, Rosa Gagliardi, Mauro de Rosa, Gennaro della Rossa, Giuseppe Rivoli, Eduardo Gallo e la fedelissima Gilda Scarpetta. Alfonso del Giudice fu Semmolone, Maria Grazia del Giudice (figlia di Raffaele Di Napoli) fu Luisella. Miseria e nobiltà fu replicata per 71 sere consecutive. Nella quaresima del 1889 si trasferì a Roma, al Teatro Valle (tappa destinata a diventare una consuetudine annuale) con Miseria e nobiltà dove raccolse il plauso generale e scritturò la giovane e bellissima Marietta Gaudiosi.
Tornato a Napoli, affittò il teatro Sannazaro dove, dopo alcune riprese di repertorio, presentò il 15 maggio 1889, Na Santarella con Marietta Gaudiosi nella parte di Nannina, Gennaro della Rossa nella parte del vecchio custode e Scarpetta nella parte dell'organista. Santarella fu replicata ininterrottamente fino al 1 luglio 1889 e poi, dopo la sosta estiva, fu ripresa dal 1 settembre fino al 5 ottobre 1889. Il maggiore successo di tutta la sua carriera. Na Santarella fu seguita dalla commedia Girolino e Pirolé vanamente spacciata da Scarpetta come parodia d'attualità di sua invenzione.
Vittorio Bersezio, che deteneva i diritti d'esclusiva traduzione e rappresentazione in Italia del testo francese Cocard et Bicoquet cui aveva attinto Scarpetta, lo indusse per vie legali a pagare i diritti d'autore. Erano le prime avvisaglie delle difficoltà che si preparavano per un autore-attore come Scarpetta, formatosi nell'orizzonte sancarliniano in cui lo spettacolo nasceva da una sintesi creativa di materiali e tecniche disparate. Il risvolto vagamente parodistico della vicenda giuridica consiste nel fatto che l'avvocato scelto da Bersezio per inchiodare inoppugnabilmente Scarpetta alle proprie responsabilità fu Francesco Spirito e nulla poté contro di lui Simeoni, avvocato difensore di Scarpetta. Anni dopo, quando l'autore-attore napoletano tornò, suo malgrado, in aula denunciato per plagio e contraffazione della dannunziana Figlia di Iorio, fu lesto a convocare dalla propria parte Francesco Spirito, lasciando agli avversari Simeoni.
Tornando al lavoro teatrale scarpettiano e ai movimenti tellurici nella sua compagnia, c'è da registrare che mentre Santarella raccoglieva al Valle di Roma il massimo consenso, tra il novembre e il dicembre del 1889, la compagnia di Pantalena era costretta a sciogliersi. Scarpetta fu ben contento di recuperare i suoi vecchi compagni. Al Teatro Piccinni di Bari Santarella riscosse il consueto successo nonostante l'abbandono di Marietta Gaudiosi, sostituita da Corinna De Crescenzo, figlia di Raffaele anche lui rientrato in compagnia.
I primi anni Novanta segnarono il consolidamento delle posizioni raggiunte dal teatro di Scarpetta sul territorio nazionale con il ripetersi dei successi romani e palermitani nel 1891 e 1892. Ma a questo punto l'equilibrio interno al gruppo mutò profondamente con evidenti riflessi anche sul repertorio: i primi ad andarsene furono i due De Crescenzo, sostituiti da Vincenzo Bianco e sua figlia Giuseppina. Si trattò di sostituzioni significative. Vincenzo Bianco era un attore comico della vecchia scuola, istrionico, che aveva a lungo militato con Davide Petito. La figlia Giuseppina, elogiata da Eduardo nell'autobiografia per l'impegno e la disciplina professionali, era dotata di una bellissima voce. Scarpetta pensò di assecondare il mutamento del gusto del pubblico per i generi musicali sfruttando la voce di Giuseppina e introducendo momenti canori e musicali in molte sue commedie di repertorio, a cominciare proprio da Santarella che conobbe una seconda vita con la nuova protagonista Nannina, impersonata da Giuseppina Bianco, spesso richiamata a concedere il bis delle parti cantate. Autore delle musiche era il Maestro Luigi Luzi, fratello dell'antico impresario del San Carlino, creatore anche dei couplets di un'altra antica commedia: Presentazione di una compagnia comica recitata al Teatro Nuovo di Napoli nel settembre del 1892. Anche la presenza di Vincenzo Bianco sembra influenzare Scarpetta nella programmazione dell'anno 1893, invogliando il capocomico ad un articolato recupero di certi vecchi tracciati della tradizione sancarliniana, come ad esempio in A' Fortuna 'e Felicello (1893) ricalcata sulle farse di Pasquale Altavilla. Dal passato Scarpetta recuperò anche il genere della parodia, sia nella formula più classica, come ad esempio nella Francesca da Rimini (1893) sia in quella d'attualità, come in 'O café-chantant (14 ottobre, 1893), ispirata alla nuova voga dell'intrattenimento comico-musicale affermatasi anche a Napoli.
'O café-chantant tenne la scena per quasi cinquanta repliche, anche perché Scarpetta aggiungeva di tanto in tanto un nuovo "numero", come ad esempio Gli esperimenti di Paul Carretto e i suoi fantocci parlanti (7 novembre) e più tardi (23 novembre) I fratelli Antos, celebri atleti (Scarpetta e Pantalena). La serata si concludeva, ormai di norma, con una canzone cantata da Giuseppina Bianco: tale clausola canora divenne in seguito una formula abituale anche in altri teatri napoletani. Anche il numero di Paul Carretto fu riproposto occasionalmente come scenetta a sé stante a conclusione della serata teatrale (14 febbraio 1894). L'impulso concorrenziale dei nuovi generi spettacolari del Varietà e del Café-chantant (ne fu la culla il napoletano Salone Margherita, apertosi nel 1890) spinse Scarpetta a rimettere in cartellone anche le sue vecchie fiabe musicali della fine degli anni Settanta come La treccia dell'imperatore. Il Pantalena, trattenuto fino a quel momento da un cachet considerevole era, però, interessato ad un repertorio più drammatico e non nascose l'intenzione di tornare a far compagnia per conto proprio. Scarpetta decise di liberarsi di lui, sciogliendolo anticipatamente dal contratto e versandogli la penale. L'addio, però, non fu privo di strascichi polemici con la pubblicazione sulle pagine del «Pungolo» delle rispettive versioni dei fatti (8-10 agosto, 1894).
Scarpetta cercò di sostituire Pantalena con Cesare De Chiara che, infatti, debuttò al Bellini con Miseria e nobiltà, ma a causa della morte improvvisa dell'attore, il capocomico fu costretto a riprendere il percorso delle riduzioni e della comicità farsesca e musicale. Il 7 ottobre del 1894 propose una sua nuova riduzione, La contessa Treccape, una commedia «con couplets dei maestri G. Giannetti, R. Rossi e V. Scarpetta cantati dalla Bianco e dalle altre chanteuses della Compagnia» («Il Pungolo», 5-6 ottobre 1894). Il figlio Vincenzo ebbe una notevole produzione musicale, tutt'ora da riscoprire, e sviluppò precocemente la passione per il cinema verso il quale, più tardi, s'indirizzò anche l'interesse di Eduardo. A novembre Scarpetta scritturò due caratteriste: Rosa Gagliardi e Adelaide Agolini – anche lei allontanatasi e rientrata – per mettere in scena la novità Tre cazune furtunate che rimase in scena per tutto il mese di dicembre.
Il 1895 è segnato dal notevole successo della rivista scritta con Roberto Villani (Edoardo Scarpetta, Cinquant'anni, cit., p. 219) Fine di secolo, rimasta in scena al Bellini per due mesi, quindi portata al Valle di Roma e ripresentata al Bellini di Napoli per tutto l'ottobre 1895. Ad essa seguì la novità 'Na buona guagliona, una commedia originale. Non venne però compresa dal pubblico del tempo, avvezzo alla spensieratezza del teatro scarpettiano. Così la commedia venne sostituita, dopo dieci repliche, con una ripresa di sicuro successo ('Na capa sciacqua con cui aveva chiuso il San Carlino nel 1884).
Le opere scarpettiane della fine degli anni Novanta mostrano la sostanziale coerenza con la precedente articolazione del repertorio (cfr. Vittorio Viviani Scarpetta, in Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Le Maschere, 1961, vol. VIII, col. 1574). Molte riprese, ancora molte riduzioni dal francese, parodie di stampo sancarliniano (La Bohême, 1896), riviste (Allegrezze e guaie, 1896) parodia dei nuovi generi spettacolari (Fregoli in sogno, interpretato con successo da Vincenzo, 1897) e qualche rara sua commedia originale.
Nel 1897 riprese in compagnia Raffaele De Crescenzo e sua figlia Corinna. Furono anni di frequenti spostamenti da un teatro all'altro di Napoli, oltre alle consuete sortite per un mese o due al Teatro Valle di Roma e al Piccini di Bari finché Scarpetta decise di fermarsi e firmò un contratto quadriennale al Teatro Fiorentini di Napoli, dal 1898 al 1902, con una compagnia di circa venti attori fra cui: Vincenzo Scarpetta, i due De Crescenzo, Gennaro della Rossa, Antonio Mancini, Vincenzo e Giuseppina Bianco, Rosa Gagliardi, le sorelle Arola, Ersilia Pappalardo e la gloriosa figura di Davide Petito. Prima dell'apertura del Fiorentini fece pubblicare un avviso in cui dichiarava che per la prima volta, dopo la scomparsa del San Carlino, i napoletani stavano per riavere la «Casa dell'arte comica» e preannunziava un repertorio misto di lavori originali, riduzioni dal francese e riedizioni «dell'antico repertorio Sancarliniano e quindi rivivranno: Orazio Schiano, Filippo Cammarano e Pasquale Altavilla» (Edoardo Scarpetta, Cinquant'anni, cit., p. 220).
Tanto bastò per riaccendere una polemica con gli autori del nuovo teatro dialettale napoletano mai sopita ma che da questo momento si fece sempre più intensa con articoli decisamente antiscarpettiani sul «Giornale d'Italia» del Bergamini: Scarpetta veniva accusato di non lasciar spazio sufficiente ai nuovi autori per affermarsi. In effetti le proposte del Fiorentini continuavano a rincorrere la richiesta di divertimento da parte del pubblico, al quale continuavano a piacere le riduzioni dal francese – principale bersaglio delle polemiche del nuovo teatro d'arte dialettale – e Scarpetta continuò a produrne in grande quantità e in certi casi con notevole riscontro di pubblico, come nel caso della Pupa movibile (1899) che ebbe quasi cento repliche consecutive. Nel profluvio delle riduzioni si segnalarono, tuttavia, alcune composizioni sintomatiche degli orizzonti della maturità drammaturgica scarpettiana: come i singolari accenti drammatici in Il debutto di Gemma (1901). De Filippo affermò che questo atto unico fu scritto per la figlia di Pantalena, ma nel catalogo di Vittorio Viviani compare anche 'A Figlia 'e Don Gennaro (1900) operina contemporanea dell'ennesimo, quanto breve, rientro di Gennaro Pantalena in compagnia. 'O Balcone 'e Rusinella (1902) è pur sempre una riduzione, ma secondo Vittorio Viviani costituisce una delle sue «più importanti» commedie per aver trovato un'originale soluzione espressiva libera sia dai cliché comici francesi sia da quelli sancarliniani (Vittorio Viviani Scarpetta, in Enciclopedia dello Spettacolo, cit., col. 1577). Viviani e Vanda Monaco individuano, infine, in 'O Miedeco d' 'e pazze, il lavoro più significativo degli ultimi anni: si tratta ancora di una riduzione ma del tutto riassorbita all'interno di una cifra espressiva originale centrata su di un Felice svagato e problematico.
Questa commedia fu rappresentata da Scarpetta al Teatro Sannazaro nel 1908, nel momento culminante della battaglia legale intentatagli da Marco Praga, direttore della Società Italiana degli Autori e da Gabriele D'Annunzio, a causa della parodia che Scarpetta aveva composto sulla dannunziana Figlia di Iorio. L'opera di Scarpetta si intitolava Il Figlio di Iorio e venne rappresentata al Mercadante il 3 dicembre 1904; fu, però, interrotta all'inizio del secondo atto da un'incontenibile manifestazione di dissenso tale da costringere il capocomico ad abbassare la tela e disdire le repliche. Dalla iniziale querela si passò all'accusa di contraffazione: il giudice istruttore convocò i periti: dalla parte dell'accusa si schierarono Salvatore Di Giacomo, Giulio Massimo Scalinger, Roberto Bracco; dalla parte di Scarpetta: Giorgio Arcoleo e Benedetto Croce. Il processo si svolse tra il 1906 e il 1908 (con vari avvocati fra cui Spirito e Simeoni) al termine del quale Scarpetta venne finalmente scagionato. L'esperienza, però, lo indusse ad abbandonare le scene poco tempo dopo, nel 1910, benché godesse ancora di largo seguito. Impose al figlio Vincenzo di sostituirlo nella direzione della compagnia nella quale avevano già debuttato sia Maria Scarpetta, sia Titina De Filippo (Miseria e nobiltà) sia il piccolissimo Eduardo De Filippo (come comparsa nella parodia La Geisha del 1905).
Eduardo Scarpetta recitò per l'ultima volta in 'O Miedeco d' 'e pazze, nel 1910, senza annunciare il suo addio alle scene (Roberto Minervini, I due Scarpetta, in Tiempe bielle 'e 'na vota, Napoli, Officine dell'arte tipografica, 1982, p. 28). A detta della figlia Maria, Scarpetta calcò ancora le scene, all'insaputa di tutti, aggiungendosi al gruppo di comparse in una ripresa di Lili e Mimì del 1911, con il volto celato da un cappello e dal bavero rialzato del cappotto: forse qualcuno tra il pubblico lo riconobbe (Maria Scarpetta, Felice Sciosciammocca mio padre, Napoli, Morano, pp. 124-125).
Nel biennio 1914-1915 si dedicò con grande slancio alla nuova arte del cinematografo girando per la casa di produzione Musical Film di Renzo Sonzogno ben cinque film tratti da suoi lavori teatrali: Miseria e nobiltà (1914); La nutrice (1914); Un antico caffè napoletano (1914); Tre pecore viziose (1914-1915), Lo scaldaletto (1915). Di incerta datazione il monologo intitolato Il Cinematografo e il teatro, (Edoardo Scarpetta, Il Cinematografo e il teatro, in Id., Tutto il teatro, Introduzione e premesse ai testi di Romualdo Marrone, Roma, Newton Compton, 1992, vol.5, pp. 489-494) in cui Scarpetta sostenne le ragioni del cinematografo perché in esso la parola vi era abolita: «La parola, come vedete, non è poi del tutto indispensabile. Anzi è spesso, dannosa». Una frase da interpretare come un rinvio ulteriore alla sua intensa polemica contro i drammaturghi-letterati del teatro dialettale d'Arte. È anche vero che il monologo condannò l'ingordigia delle case di produzioni richiamandosi all'infelice conclusione dell'esperienza filmica che fu, ancora una volta, legale. Non soltanto i film non ebbero buona accoglienza, ma la casa produttrice fallì, lasciando quindi insoluti gli impegni con Scarpetta. Insoddisfatto per proprio conto del risultato artistico raggiunto, Scarpetta ricomprò tutte le copie uscite sul mercato nell'intento di non lasciare traccia del suo esperimento col cinema. I suoi cinque film, infatti, risultano a tutt'oggi irreperibili (cfr. Pionieri del cinema napoletano. Le sceneggiature di Vincenzo e i film perduti di Eduardo Scarpetta, a cura di Pasquale Iaccio e Maria Beatrice Cozzi Scarpetta, Napoli, Liguori, 2016).
Eduardo Scarpetta morì a Napoli, il 29 novembre del 1925, ed ebbe sontuose cerimonie funebri. Eduardo De Filippo si occupò approfonditamente dell'arte di Scarpetta in tempi e modi differenti. Volle evidenziare – alla luce di un'eredità professionale accolta e del rilievo nazionale raggiunto dal teatro napoletano – il magistero teatrale scarpettiano nei confronti degli attori: «i teatranti cominciavano ad acquisire una coscienza professionale, che, giammai prima d'allora, si erano sognati di possedere. Quale fu la sua semina?» (E. De Filippo, Prefazione a M. Mangini, Eduardo Scarpetta e il suo tempo, Napoli, Montanino, 1961, p. 10).
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Secondo gli studi più recenti, Eduardo Scarpetta fu il creatore di Felice Sciosciammocca, un nuovo carattere buffo, assente dalla galleria dei tipi comici napoletani (Antonio Pizzo, Scarpetta e Sciosciammocca: nascita di un buffo, Roma Bulzoni, 2009, p. 114). Nella tradizione teatrale precedente si può incontrare il nome di Felice, o Felicello, in relazione ad una tipologia abbastanza indefinita di giovincelli affamati, o cocchi di mamma, o mariuoli: figure marginali, riconducibili al ruolo del Mamo derivato dalla commediografia di Filippo Cammarano. Fu Scarpetta a estrarlo dall'indefinitezza e assegnargli un profilo da protagonista con una caratterizzazione efficace, esemplata sui propri tratti fisiognomici e temperamentali: vivacità, mimica facciale accattivante, sorprendente creatore di equivoci, gaffes, imbrogli. Felicello Sciosciammocca mariuolo de 'na pizza, andò in scena il 7 giugno 1871. Fu un tipo che riscosse rapidamente consenso e si affermò maggiormente dopo Pulcinella solachianello arrozzuto, ovvero Don Felice Sciosciammocca creduto guaglione de n'anno (1872). Questo nuovo buffo si radicò nell'immaginario cittadino al punto da suscitare ben presto l'emulazione concorrenziale di altri giovani attori nei panni di Felice Sciosciammocca sui vari palcoscenici dei teatrini popolari napoletani, senza però superare l'originale.
La collaborazione in coppia con Antonio Petito, il celeberrimo Pulcinella, la star del San Carlino funzionò da volano per l'affermazione del Felice scarpettiano; ma condizionò anche la definizione originaria dei tratti caratteristici del tipo in funzione del contrasto comico con la maschera. Le farse e le commedie tra il 1872 e il 1873 portarono in luce, infatti, un Felice Sciosciammocca «ebete lezioso» (Roberto Minervini, I due Scarpetta, in Tiempe bielle 'e 'na vota, Napoli, Officine dell'arte tipografica, 1982, p. 31), identificato da una parlata infantilmente distorta, senza "erre", resa ritmica da un intercalare ripetitivo, cantilenante (Antonio Pizzo, Scarpetta e Sciosciammocca: nascita di un buffo, cit., p. 123). È un ragazzino benestante di provincia, ben vestito, mammone, ridicolo e piagnucoloso come ad esempio in Il baraccone delle marionette meccaniche (1872). A volte, però, Petito sperimentò un inedito rapporto paritario con Sciosciammocca facendo emergere i rispettivi tratti comici come in Una seconda educanda di Sorrento (1872) o nella più tarda commedia scarpettiana 'Na commedia de tre atti scritta da D. Felice Sciosciammocca con Pulcinella poeta disperato (1875); a volte, invece, Petito subordinò Sciosciammocca al ruolo di spalla come in 'Nu mbruoglio pe' la Palombella zompa e vola dinta a li braccia de nenna mia (1873). E tuttavia all'interno di questo orizzonte circoscritto, sia pure variato dal progressivo prevalere del carattere amoroso, Scarpetta seppe ridefinire in autonomia il proprio personaggio mediante alcuni tratti temperamentali inconfondibili: l'alienazione dei sani principi e regole borghesi e l'utilitarismo venato di avarizia e cinismo.
Nell'80 il passaggio alla nuova condizione di autore-capocomico-autore-impresario implicò non soltanto la progressiva emarginazione della maschera di Pulcinella, ma anche il superamento dell'originario Sciosciammocca, cominciando a potenziare i tratti emersi negli ultimi mesi di militanza al San Carlino dopo la morte di Petito. Per inaugurare il suo repertorio riformato, ricco di riduzioni francesi ricreate in ambiente e lingua napoletani, scelse Tetillo, da Bebé di Émile De Najac e Alfred-Néoclès Hennequin, già rappresentato in italiano a Napoli, tre anni prima, al Teatro dei Fiorentini. Era una scelta che avrebbe dovuto suggerire una relazione di continuità tra l'immagine cara ai napoletani di Felice Sciosciammocca, giovane mammone, viziatello, con quella nuova di Tetillo e in effetti le analogie tra vecchio e nuovo personaggio non mancavano.
La riduzione venne apprezzata, ma non riscosse il plauso subitaneo delle altre due riduzioni successive, forse a causa della innovativa modalità del finale (privato del consueto saluto al pubblico) oppure per l'innesto poco organico tra la struttura del vaudeville con i contenuti napoletani. Ad ogni modo «Il Pungolo» l'8 settembre 1880, così commentò la prova d'interprete: «Eduardo Scarpetta, nella parte di Tetillo, rivaleggiò coi migliori artisti italiani che, per i primi, ci fecero conoscere Bebé; di più egli ha la naturalezza, il brio, e quella mobilità di fisionomia ch'è tanta parte de' suoi successi» (Tiziana Paladini, Scarpetta in giacca e cravatta, Napoli, Luca Torre, 2000, p. 106). Scioltosi dalla fissità del vecchio tipo comico di marca petitiana, il nuovo Don Felice si rivelò refrattario a qualsivoglia conversione morale e anzi, proprio nel finale, si dimostrava pronto a ricadere comicamente nell'errore dongiovannesco per cui aveva appena fatto ammenda.
La nuova drammaturgia in dialetto presentava ora dialoghi arguti e salaci in luogo dei lazzi e delle improvvisazioni della consuetudine; le situazioni comiche erano recitate con studio e affiatamento da parte di un gruppo di attori all'altezza dei nuovi ruoli, con la conseguente abolizione delle antiche maschere. Anche lo stesso tipo di Felice Sciosciammocca, forgiato durante l'apprendistato petitiano con la necessaria fissità del buffo tradizionale, si sarebbe trasformata in una molteplicità di personaggi comici desunti dalle pièces francesi senza con ciò vanificare l'identità inconfondibile di Don Felice.
Dopo Tetillo, il nuovo stile scarpettiano si articolò in una variegata declinazione di tipi, tanti quanti furono i personaggi dei vari testi interpretati fino all'addio alle scene; l'esteriore identità era garantita dal nome (Don Felice Sciosciammoccca, appunto, in ossequio ad una convenzione ancora ben viva nel pubblico) mentre la profonda coerenza del carattere era assicurata dal carisma e dalla personalità stessa dell'attore ormai coincidente con il personaggio. Così Don Felice diventò il "baccalaiuolo" arricchito, sposato infelicemente con Donna Amalia dello Scarfalietto; fu una delle Tre pecore viziose, un Don Giovanni frustrato e squattrinato; fu il notaio vedovo, desideroso di rimaritarsi per avidità di denaro in Nun la trovo a maretà, in cui «Il Pungolo» rilevò che all'attore «basta una parola, un gesto, una contrazione dei muscoli facciali per enlever la sua piccola ma ormai esigente platea» (Ivi, p. 128).
Scarpetta, più o meno scopertamente, continuava ad attingere alla riserva dei giochi attorici sancarliniani anche impersonando il Don Felice miope, giovane borghese in caccia di una buona dote di 'Nu frungillo cecato: «Il frungillo cecato è Don Felice Sciosciammocca, è Sciosciammocca autentico quale fu creato in origine dallo Scarpetta, e di cui nell'ultima maniera delle commedie tradotte dal francese si andava perdendo lo stampo e il ricordo» (Ivi, p. 130). Fu l'organista del convento delle Rondinelle e di sera l'autore di operette nella celebre 'Na Santarella: «Scarpetta in questa sua Santarella s'è tagliata una parte nella quale Don Felice Sciosciammocca, sotto la zimarra dell'organista e il paletot troppo corto dell'operettista, passa il punto dove per naturalezza ed efficacia comica, la maschera diventa carattere» (Ivi, p.144). La via intrapresa non conobbe poi altro che successi più o meno intensi.
Va, d'altro canto, segnalato che, accanto alla prevalente vena comica dell'interpretazione scarpettiana, convisse in costante penombra una potenziale espressività drammatica raramente esibita in scena da Scarpetta sia per non contraddire la dichiarata opzione per un teatro dialettale comico sia per non mostrarsi sensibile alle rimostranze dei fautori del teatro dialettale d'Arte. Eppure quelle corde si affacciarono nel Pezzente resagliuto (1880) non accettato dal pubblico del San Carlino che amava soltanto ridere; si precisarono nel famoso primo atto di Miseria e nobiltà (1888) dove Felice è alla fame a causa di un mestiere (quello dello scrivano) che non dà più alcun reddito né speranza di ripresa ed è allo stremo per la situazione familiare in cui si trova: senza tetto, ospite dell'amico Pasquale, un altro miserabile come lui; è il compagno della rancorosa Lisetta e il padre inascoltato del piccolo Peppeniello che infatti fugge di casa.
La vena drammatica si manifestò ancora più apertamente in Il debutto di Gemma (1901). Questo atto unico venne ricordato da Eduardo De Filippo per la straordinaria prova d'attore di Scarpetta, interprete del ruolo del suggeritore di un'affamata compagnia di guitti di cui fa parte la giovane attrice gravemente malata e che tuttavia non rinuncia al suo primo esordio in palcoscenico: «Uomini della mia età – scrisse De Filippo nel 1961 – o più vecchi ricorderanno il pallore cadaverico che scendeva sul volto dell'attore, quando, al centro del palcoscenico, gli spirava fra le braccia la piccola debuttante» (E. De Filippo, Prefazione a M. Mangini, Eduardo Scarpetta e il suo tempo, Napoli, Montanino, 1961, p. 11). L'ultimo approdo stilistico scarpettiano è, infine, quello della svagatezza in 'O Miedeco d' 'e pazze (1908). Qui Felice è un borghese agiato e provinciale, ma visionario e, appunto, svagato. Egli è un personaggio che non ha bisogno di ricorrere alla caratterizzazione macchiettistica, giungendo a farsi definire dallo sfaccettato rifrangersi dell'opinione degli altri personaggi, ciascuno portatore di una falsa verità.
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